II

LEOPARDI DELL’«ESPERIENZA DI SÉ»

Quando in uno studio di poetica si parla di biografia, su di un piano decentemente avveduto, è chiaro che mentre non si vuol cadere in spiegazioni deterministiche e psicologiche, non si vuol neppure rimanere in un limbo allusivo, pauroso di ogni tensione umana al di là di semplici riferimenti grammaticali. Si sfugge tanto meglio ai due pericoli quanto piú si rivolge ogni dato ad una funzione necessaria, subordinata alle direttive di una chiara coscienza artistica attraverso quel nodo essenziale di trasmutazione che è appunto la poetica, di fronte a cui i dati biografici diventano sempre esperienza, coscienza di situazioni che offre pretesto animato di linee estetiche. Ed una valutazione della biografia ha tanto piú valore nel caso del Leopardi proprio per la sua nudezza, per la sua linea costantemente intima di avventura interiore in cui il semplice tentativo di fuga (quasi comico in una vita qualsiasi di adolescente piuttosto maturo come era il Leopardi nel 1819) assume un tono altamente drammatico che sarebbe mancato in biografie piú fastose ed esteriori. Una di quelle biografie in cui ogni minimo avvenimento risuona del tipico timbro personale (sempre Erlebnis, avvenimento vissuto) e rientra facilmente in una linea di vita poetica e non perciò estetizzante, anzi poetica perché intensamente sofferta ed esperimentata come tragedia senza la minima frivolezza. Basti pensare all’epistolario leopardiano in cui un’attenta auscultazione non avverte mai un tono puramente pratico, subíto piú che vissuto pur nell’apparenza di un «patire» la violenza delle cose: un patire che non è mai una nuda reazione vitale.

Ed è proprio nel periodo di cui ci occupiamo che il Leopardi prese piú chiara coscienza del carattere intimo, necessario del suo atteggiamento filosofico e poetico al di sopra di ogni spiegazione «medica», fuori del suo stato di malattia di cui parla persino a volte esagerandolo. «Ç’a été par suite de ce même courage qu’étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante, je n’ai pas hésité à l’embrasser toute entière, tandis que de l’autre côté ce n’a été que par effet de la lâcheté des hommes qui ont besoin d’être persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine à attribuer à mes circostances matérielles ce qu’on ne doit qu’à mon entendement. Avant de mourir je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnements plutôt que d’accuser mes maladies»[1].

Non è a caso che questa protesta cosí vigorosa e sicura sia uscita in questo periodo e non a caso l’ho citata perché essa ci indica il tono risoluto, di certezza che contraddistingue questo ultimo Leopardi piú virile e «persuaso» del valore della sua personalità e del suo mondo ideale sentito piú chiaramente insieme come «suo» e come «vero».

Naturalmente lo stacco che noi operiamo nella intima biografia del poeta è tanto piú chiaro in quanto lo vediamo in funzione di uno stacco di poetica tanto piú illuminante, tanto piú concretamente accertato e di cui, in certo senso, il riferimento alla biografia non è che oggetto di riprova. È soprattutto man mano che si procede verso l’espressione poetica che la differenza fra il Leopardi precedente e il nuovo si fa piú evidente e che la differenza sul piano biografico si rivela differenza di tono, di interpretazione degli avvenimenti.

Il Canto notturno fu compiuto il 9 aprile 1830 poco prima che il Leopardi abbandonasse Recanati per recarsi a Firenze. Con quella data e con quel canto si chiudeva il periodo idillico e la sua partenza era un deciso distacco dal mito di Recanati, della giovinezza che durava come possibilità nostalgica, e da quella sorta di dolente inazione in cui l’appello fiorentino, l’amicizia concretata nell’aiuto raccolto dal Colletta destavano un impeto di gratitudine e di desiderio socievole, corrispondevano a un bisogno nuovo di vita che sorprendiamo anche nelle lettere disperate degli ultimi mesi recanatesi e che esplode con un moto di soddisfazione nelle prime lettere del nuovo soggiorno fiorentino. Qui nuove amicizie, possibilità di vita letteraria, e la gloria, che solo ora comincia veramente ad illuminarlo (De Sinner, le traduzioni tedesche), si inseriscono in una nuova considerazione del presente piú immediata e combattiva.

Piú tardi queste condizioni presenti nel primo stacco potranno scomparire, ma sostanzialmente il tono generale non cambierà piú e rimarrà nel Leopardi quest’atteggiamento anche socievolmente piú franco ed attivo. La sua vita sentimentale si arricchisce di «persone», non piú figure vagheggiate o modelli lontani e venerabili (Monti, Mai) o amicizie ardenti, ma lontane: sono l’amicizia con Ranieri, costante per tutti i «sette anni di sodalizio», la conoscenza affettuosa di uomini come Vieusseux, di signore come Carlotta Bonaparte, di ammiratori come il De Sinner che proponendogli la pubblicazione dei suoi scritti filologici apre il suo animo a nuove speranze di gloria e di possibilità pratiche. Si può dire che come a questo clima carico di affetti, di relazioni spirituali ed intellettuali corrispondeva essenziale una maggiore tensione nell’animo del poeta, cosí un senso interno piú forte della personalità leopardiana trova quasi conferme esterne e se ne rallegra e se ne nutre piú di quanto abbia fatto precedentemente.

Il nuovo impegno vitale con cui iniziò la sua vita fiorentina ci è testimoniato dalle sue lettere, magari in brevi accenni che pure hanno un certo tono d’allegria e di ansia che non è piú del solitario e di certi gelidi distacchi leopardiani, tanto che questo inizio fiorentino potrebbe davvero chiamarsi, come lo chiamò, ma con diversa intenzione il Gioberti[2], «un nuovo risorgimento», risorgimento di tutta la personalità accompagnato da un’attenzione affettuosa alla presenza degli altri. «Mi trovo affollato di visite e tutti mi fanno complimenti sulla mia buona cera» scriveva appena arrivato il 12 maggio al padre. E tutta la lettera a Paolina, in data 18 maggio[3], è pervasa da questo senso di sé e degli altri, da questo fervore di vita che ci pare perfino capace di accentuare ed esagerare le notizie frettolose e compiaciute: «sempre in giro a restituir visite. Nuove conoscenze, nuove amicizie...»[4]. Anche se non mancano le solite lamentele sulla salute che culminano nella impaziente risposta alla madre che attribuiva le sue malattie alla fantasia eccitata[5]. Ma non è piú uno stato di pena abbandonata che richieda dimenticanza, suggestioni care di paesi e di ricordi. È una convinzione di infelicità quasi fiera, accompagnata da desiderio di affermazione personale sia affettivamente come in questo primo momento fiorentino sia come protesta ed insegnamento profetico come negli anni napoletani.

E la stessa brevità epistolare testimonia il nuovo tono sicuro, perentorio, abolendo ogni aria di aulica convenienza o di scherzo letteratesco in un movimento interno scattante a tradurre una sicurezza di passioni e di sdegni senza veli. Sdegni contro chiunque mette in dubbio la costanza delle sue idee e la sua convinzione profonda[6], sdegni contro ogni bassezza di ordine morale o intellettuale[7]. Brevità e scatto di sentimenti in parole frementi, in mosse rapide e risolute quali si notano soprattutto nei biglietti al Ranieri verso cui si riversa soprattutto nel ’32-33 un calore di passione incurante di ogni compromesso letterario, teso solo a realizzare al massimo il proprio slancio interno. Sono espressioni convulse («Amami, anima mia, e non iscordarti, non iscordarti di me...», 24 novembre ’32), piene di una disperata volontà di affermare un valore sicuro: «Intanto io ti amo come tu solo puoi intendere e darei anche i miei occhi per consolarti, se valessero. Ti abbraccio come la mia unica causa vivendi. Addio, Addio» (6 dicembre ’32).

Espressioni romanticissime che confinano con uno stato di ebrezza, particolare in quegli anni, ma percepibile in tutto questo periodo come stato di tensione diversamente atteggiato. «Vorrei che ogni parola ch’io scrivo fosse di fuoco, per supplire alla dolorosa brevità comandatami dai poveri infelici miei occhi...» (2 gennaio 1833). Biglietti che si riducono ad una breve mossa passionale quasi incurante di ogni sintassi meno che immediata: «Ranieri mio, ti sospiro come il Messia. S’io posso abbandonarti, tu lo sai bene. Ti mando mille baci» (2 marzo 1833). «Dio mi conceda di rivederti prima che io muoia: che ormai mi pare appena probabile, non per tua colpa certamente. Addio, ὦ πολὺ έπικαλοὺμενε, addio con tutto il mio cuore» (13 aprile 1833).

Certo questo non è che un capitolo dell’epistolario biograficamente ben determinato, ma è insieme espressione di un atteggiamento fondamentale di tutto questo periodo, di un modo di sentire, di vivere la propria urgenza vitale. In seguito il tumulto si placherà e lascerà posto ad accenti piú solenni (e certa morbosità scomparirà), ma la forza di passione, l’impegno virile senza reticenze e senza veli di nostalgia o di colore permangono nelle vicende diverse della cronaca.

Se abbiamo indicato cosí il tono fondamentale di questo periodo e soprattutto lo stacco che il Leopardi 1830 operò entro il suo animo da atteggiamenti piú blandi ed idillici, non va dimenticato in questo abbozzo di «vita interiore», come prova della nuova situazione leopardiana, l’amore per la Fanny Targioni Tozzetti.

Il nome di Fanny ricorre spesso nell’epistolario e vi ricorre a volte celato in scherzo sospiroso e galante, ora in sottinteso fremente e disperato come nel biglietto del 10 gennaio 1833 al Ranieri; appare in una luce gioiosa ed avida che poi si tramuta in baleni violenti ed in una persistenza disperata. Dopo gli studi pur contrastanti del Ferretti, del Moroncini, del Flora[8], la realtà biografica di questa avventura interiore è fuori discussione, troppo corrispondono anche le brevi espressioni delle due lettere alla Targioni ad Amore e Morte, troppo tragicamente vicina ad Aspasia è la frase che la «dotta allettatrice» scrisse al Ranieri circa il Leopardi in data 31 ottobre 1835: «E di Leopardi che n’è? io già sono nella sua disgrazia, non è vero? ed il grand’amore si convertí in ira: ciò mi è accaduto sovente, perché nella filza de’ miei adoratori ho avuto certi camorri da far paura».

Lontani da facili identificazioni fra passione pratica e passione poetica e inclini anzi alla nota tesi alfieriana circa la gatta del Petrarca[9], non vediamo qui la ragione per negare alla poesia leopardiana dei nuovi canti un pretesto realistico che rinforza l’impressione di tono nuovo, di passione presente, di distacco dal vagheggiamento idillico.

Poco interessa accertare fin dove l’«inganno» giungesse, e quanto poco corrispondesse Fanny al fantasma poetico che il Leopardi costruí. Ci interessa invece assicurare alla nuova poetica una riprova di concretezza umana, di maggiore prepotenza di un «presente» che è, all’inizio del nuovo periodo, un formidabile sentimento d’amore. Il tono di questo amore, l’impegno di questa esperienza personale non piú giovanile e sognata è il tono del nuovo periodo che non abbandona la sua forza e i suoi caratteri solo con la fine dell’amore, secondo la formula dello Zottoli, ma si prolunga nella forza omogenea, nell’impegno omogeneo della delusione e della protesta dei successivi momenti vitali.

Io non lego dunque la nuova poesia all’«amore» leopardiano, ma trovo in questo amore e nella sua coscienza poetica i caratteri nuovi, eroici, combattivi che contraddistinguono tutta la nuova poetica nelle sue successive realizzazioni.

Come si presenta infatti al Leopardi critico di se stesso, l’amore (questo amore) se non come esperienza personale insostituibile da cui tutta la vita subisce una altissima tramutazione e da fantastica si fa reale?

Quando si rilegge il grande pensiero LXXXII che certo si riferisce a questo momento della vita interiore leopardiana, non si sente la giustificazione stessa della nuova poetica del presente, il riconoscimento del distacco da una posizione piú giovanile? «Nessuno diventa uomo innanzi di aver fatta una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la sua fortuna e lo stato suo nella vita... Il conoscimento e il possesso di sé medesimi suol venire o da bisogni e infortuni o da qualche passione grande cioè forte; e per lo piú dall’amore; quando l’amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l’amare... Certo all’uscire di un amor grande e passionato l’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desiderii intensi, e con bisogni gravi e forse non provati innanzi, conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda, infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze... In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo; già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente, in mezzo ad essa, forse non piú felice, ma, per dir cosí, piú potente di prima, cioè piú atto a far uso di sé e degli altri».

L’importante è proprio questo: che se altre vicende e pensieri logicamente affini potrebbero rendere scettici sulla effettiva novità di questo Leopardi, l’accento coerente, la coscienza della novità è nel Leopardi stesso che si sente «cangiato molto nel morale»[10] e che riconosce il suo nuovo atteggiamento rispetto alla vita. Il desiderio dell’amore aveva risentito nei primi idilli di quello speciale clima che fa rientrare la donna desiderata in tutto un naturale mondo di vita istintiva e felice di fronte al mondo doloroso del poeta. E questo carattere di assaporata fantasticheria sentimentale piú che di passione presente è precisato nel tono nostalgico dei grandi idilli, delle figure di Silvia e Nerina.

Solo in questo periodo la passione amorosa acquista sapore di esperienza vitale e conferma questa diversa impostazione leopardiana rispetto al sogno idillico e all’impegno eroico. Sí che non appare esteriore avere accennato a questa esperienza ad inizio dello studio di una poetica e di una poesia cosí nuove e sconcertanti nell’ambito della «carriera» leopardiana.


1 Lettera a De Sinner, 24 maggio 1832 (Epistolario, a c. di F. Moroncini, Firenze 1940, VI, p. 176).

2 Epist. VI, p. 140.

3 Epist. VI, p. 5.

4 Epist. VI, p. 10.

5 «Pare impossibile che si accusi di immaginaria una cosí terribile incapacità d’ogni minima applicazione d’occhi e di mente, una cosí completa infelicità di vita, come la mia. Spero che la morte, che sempre invoco, fra gli altri infiniti beni che ne aspetto, mi farà ancor questo, di convincer gli altri della verità delle mie pene» (Epist. VI, p. 8).

6 Si veda la lettera a G. P. Vieusseux, 27 ottobre 1831: «Questo amerei che ripeteste a chi parla di prelature o di cappelli, cose ch’io terrei per ingiuria se fossero dette sul serio. Ma sul serio non possono essere dette se non per volontaria menzogna, conoscendosi benissimo la mia maniera di pensare, e sapendosi ch’io non ho mai tradito i miei pensieri e i miei principi colle mie azioni».

7 Lettera al Melchiorri, 15 maggio ’32.

8 G. Ferretti, Vita di G. L., Bologna 1940, e Leopardi, studi biografici, Aquila 1929; F. Moroncini, Lettere inedite di A. Poerio e di A. Ranieri, in «Nuova Antologia», 1° agosto 1930; Leopardi e Ranieri, Fanny e Lenina, in «Pegaso», 1932; Il retroscena e il supplemento del libro del Ranieri ecc., in «Nuova Antologia», 1933; F. Flora, Aspasia, in «Nuova Antologia», 1928.

9 Ma non inclini alla tesi di R. Dusi (L’amor leopardiano, Bologna 1931) astratta e ben poco leopardiana.

10 Lettera del 26 giugno 1832 alla Paolina.